Esiste un collegamento tra le maschere del teatro e quelle di Carnevale?
Lo chiediamo alla Dott.ssa Jessica Marini, tecnico della riabilitazione psichiatrica, specializzata in Artiterapie, Arteterapeuta in formazione che si occupa di attività riabilitative presso i reparti SRP1 (Struttura riabilitativa psichitrica a carattere intensivo), RA (Riabilitazione alcologica) ed SRP3 (Struttura residenziale psichiatrica per interventi socioriabilitativi) della Casa di Cura Villa San Giuseppe”.
La maschera teatrale e la maschera carnevalesca hanno una comune origine religiosa, finalizzata ad entrare in una dimensione mistica a contatto con il divino. Oltre alla funzione della maschera quale amplificatore della voce nell’antica Grecia, le maschere sono poi state protagoniste della Commedia dell’arte – commedia all’improvviso– che veniva recitata da attori ai margini della società da cui nacquero i “Tipi” come il servo Arlecchino, l’erudito dottor Balanzone, il ribelle Pulcinella. Ogni maschera -termine più ampio rispetto al normale travestimento da indossare- aveva caratteristiche, atteggiamenti e accessori ben definiti.
Oggi queste peculiarità possono ricordare la più moderna teoria dei ruoli di Rober J. Landy, pioniere del modello del ruolo nella drammaterapia, uno specifico intervento a mediazione teatrale attuabile in contesti psichiatrici. In maniera similare alla categorizzazione delle maschere, in questa teoria Landy aveva individuato una serie di ruoli e attributi: il tipo (es. il prepotente, l’eroe, il saggio, l’ossessionato), la qualità, la funzione, lo stile e il sistema. Attraverso la “maschera” ovvero l’assunzione di ruolo, il protagonista può svelare, scoprire parti di sé, sperimentarsi in altre sfaccettature e dunque ampliare il repertorio di ruoli, quale fattore necessario all’integrazione delle capacità relazionali.
È dall’integrazione di elementi di Drammaterapia e Teatroterapia che ho preso spunto per il laboratorio a mediazione teatrale rivolto agli ospiti affetti da schizofrenia e disturbi schizoaffettivi afferenti al reparto SRP3 presso La Casa di Cura “Villa San Giuseppe”. Pur presentando differenze in termini teorici, i due approcci sono accomunati dall’utilizzo di strumenti quali corpo, voce, spazio scenico, gioco e oggetti mediatori propri dell’arte teatrale (come per esempio la maschera stessa) e sono orientati a obiettivi generali comuni. Gli obiettivi possono essere: conoscere la propria identità psicofisica, riconoscere ed esprimere le proprie emozioni, implementare le abilità sociali e di efficacia interpersonale, sviluppare risorse quali creatività e immaginazione e imparare a tollerare la sofferenza. Altresì, la teatroterapia attraverso l’ausilio dello spazio scenico come spazio potenziale e il “come se” favorisce l’apprendimento, l’allenamento delle abilità motorie e prassiche, il miglioramento delle capacità cognitive, la sperimentazione dell’ampio repertorio dei ruoli per raggiungere una identità più libera, autentica, meno rigida o disfunzionale; il tutto attraverso il linguaggio verbale e non verbale in un contesto scevro dal giudizio.
Alcuni degli obiettivi a cui mira il laboratorio condotto in SRP3 riguardano: la ri-alfabetizzazione emotiva, ovvero favorire il riconoscimento e l’espressione dei propri stati d’animo, il miglioramento delle capacità comunicative, la consapevolezza spaziale e corporea, l’assunzione di nuovi ruoli meno cristallizzati, la stimolazione dei processi cognitivo, l’attivazione del piacere e della creatività.
Seguendo una precisa strutturazione progettuale, durante il laboratorio vengono proposte diverse attività, alcune delle quali riguardano la costruzione di un personaggio e delle caratteristiche annesse, la creazione di “statue” e quadri viventi, il riconoscimento ed espressione delle emozioni attraverso l’ausilio delle maschere.
Cito alcune attività che hanno avuto un ampio margine di successo all’interno del gruppo.
È la volta de “I colori delle emozioni primarie”: la scena è stata divisa da 5 fogli di cartapesta colorati, corrispondenti ognuno ad una diversa emozione (prendendo spunto dal film “Inside Out”). Uno alla volta o in coppia abbiamo improvvisato “una telefonata”. Gli ospiti sono riusciti a “switchare” tra un’emozione e l’altra modificando la mimica facciale, tuttavia il linguaggio del corpo non faceva fede alle loro intenzioni. Infatti il linguaggio del corpo nelle psicosi non è metaforico bensì incarnato. Le metafore incarnate ci presentano un corpo assediato-trincea, braccato-caccia, macchinino-stereotipato, veste-svuotato, rivoltato, trasparente/permeabile, devitalizzato/anestetizzato, decomposto, smembrato, frammentato, frantumato, cosificato/oggetto, estraniato, pietrificato, diffuso, etereo, compresso. Ci si trova di fronte a corpi “oggettivati”, ridotti alla dimensione anatomica.
Allora mi è venuta un’idea! Ho invitato i partecipanti a disporsi in cerchio, indossare la maschera neutra in volto e uno alla volta al centro esprimere con tutto il corpo un’emozione, amplificandone i movimenti. È stato entusiasmante vedere l’impegno e la soddisfazione nei loro occhi quando, sotto forma di indovinello, sono riusciti non solo ad esprimere le emozioni ma anche a riconoscere quelle espresse dai compagni.
Durante un altro incontro, attraverso l’ausilio di costumi e oggetti di scena ci siamo cimentati nella costruzione del personaggio: mentre i partecipanti si muovevano nello spazio, ho suggerito loro di trovare un’andatura personalizzata e un’espressione del viso, poi aggiungere un tono di voce, immaginare un nome per il proprio personaggio, definire età, abitudini gusti ed eventualmente una professione. Al centro della sala sono stati posti degli oggetti utili per costruire il personaggio. Una volta definiti i ruoli ognuno è entrato in relazione con l’altro presentandosi e conversando. È stato entusiasmante anche in questa occasione mettersi “creativamente” in gioco.
Infine ricordiamo l’attività di costruzione di un “quadro vivente” in cui i partecipanti si sono cimentati nel riproporre quadri presenti nella struttura o estrapolati dal proprio repertorio culturale, impegnandosi non solo ad assumere la mimica e la postura adeguata ma mantenendo, per un lasso di tempo prolungato, una determinata posizione.
Svariate sono le attività che, nonostante le difficoltà correlate alle specifiche dimensioni psicopatologiche, vengono tutt’oggi portate avanti con passione, entusiasmo e perché no: divertimento!
Fare Teatroterapia per me significa non solo fornire uno strumento di riabilitazione psichiatrica, ma anche riscoprire la vita della follia, accettare la tragedia, sciogliere la tensione e offrire non più un canovaccio fisso bensì un foglio bianco metafora di un luogo protetto su cui sperimentarsi con sicurezza in corpi pieni, movimenti creativi, espressioni comunicative, relazioni interpersonali e ruoli nuovi. Il teatro diviene uno spazio in cui è possibile non sentirsi più costretti a giocare una parte ma scegliere di mettersi in gioco per potersi esprimere liberamente e in assenza di giudizio; non più un quadro vivente preconfezionato bensì una cornice su cui dipingere ed essere creativi.. con quella spennellata di ridente follia che è vita.. per tutti!